Vent’anni fa quando ho scelto, perché di scelta si tratta, di dedicarmi alla narrazione d’impresa sono accadute tutta una serie di cose straordinarie. La bellezza d’incontrare imprenditrici e imprenditori che hanno creato realtà uniche. Collaboratori che hanno condiviso un sogno comune. Emozioni che difficilmente emergono da numeri, bilanci o dettagliati business plan. È ciò che accade quando si entra in relazione con le persone. Si arriva in profondità del loro animo. Si fanno emergere le motivazioni più profonde che ci spingono a fare di un’impresa, un qualcosa non solo in grado di generare valore economico, ma l’espressione di cosa vogliamo essere e quale vuole essere il nostro impatto sul mondo.
In tutto questo, nel corso degli anni, il mio lavoro non si è limitato a un’esecuzione, anche ben fatta, di una professione, ma una missione per far sì che storie d’impresa virtuose potessero emergere e contaminare positivamente altre persone che svolgevano la propria attività o, come per i ragazzi, si stavano apprestando a portare il loro contributo nel mondo del lavoro.
Per non tediarvi e passare invece il testimone al vero protagonista di questa intervista, ecco due indizi che mi hanno portato a lui, così come doveva essere. Così come forse era scritto, nel momento stesso in cui ho deciso di porre il mio sguardo su chi fa impresa. <<In quello che scrive si ritrova molto dello spirito olivettiano>> questa è stata ed è una delle frasi che mi sento più spesso ripetere. Il complimento più apprezzato. <<Lei cosa ne pensa di Adriano Olivetti?>> una domanda che si ripresenta costantemente durante incontri pubblici. Domanda rivoltami da un ragazzo di diciott’anni non più di un mese fa, durante una presentazione in una scuola. Ecco perché forse era giunto il momento. Non tanto di parlare di Adriano Olivetti, perché a mio avviso ognuno deve andare a rileggerlo, scoprirlo, riscoprirlo. Come preferisce. Dedicandogli il giusto tempo. Il giusto ascolto. Quello che mi interessa oggi è darvi una chiave d’accesso. Sicuramente quella più autorevole. È per questo che ho chiamato la Fondazione Adriano Olivetti e ho voluto intervistare il suo Segretario Generale: Beniamino de’ Liguori Carino.
Buona lettura!
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Come è arrivato a diventare Segretario Generale della Fondazione Adriano Olivetti?
Sono segretario generale della Fondazione Adriano Olivetti da gennaio 2016 e consigliere di amministrazione. Sono arrivato direi fondamentalmente attraverso due strade. La prima il mio interesse per le Edizioni di Comunità che era la casa editrice fondata da Adriano Olivetti sulla quale avevo scritto la mia tesi di laurea, poi trasformata in un quaderno della fondazione qualche anno dopo perché era un tema ancora poco esplorato tra tutte le attività che hanno fatto riferimento a Olivetti. Tra l’altro poi da lì è nato un mio percorso imprenditoriale, micro-imprenditoriale, in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti per cui nel 2011 abbiamo rilevato il marchio editoriale di Edizioni di Comunità da Mondadori dove era arrivato attraverso tutte le vicende Olivetti, Carlo di Benedetti e il gruppo Mondadori e da lì abbiamo iniziato un percorso di rinnovamento di nuova vita della casa editrice. L’altra ragione è che io sono tra le altre cose il nipote di Adriano Olivetti, nel senso che sono figlio dell’ultima figlia di Adriano e per statuto la Fondazione Adriano Olivetti deve aver almeno in consiglio un discendente diretto. Quando è mancata mia madre, sono entrato io e questo dal mio punto di vista qualifica anche un po’ la natura della Fondazione, nel senso che la Fondazione Adriano Olivetti, costituita nel 1962, è una delle Fondazioni di origine non bancaria più antiche che ci siano in Italia ed è stata costituita dai famigliari più stretti di Adriano Olivetti e da collaboratori molto vicini a lui. Il primo spunto sulla necessità di costituire una Fondazione era stato di Geno Pampaloni che è stato per anni segretario personale di Adriano. La Fondazione Adriano Olivetti nasce davvero, al di là degli slogan retorici, non con un obiettivo celebrativo in qualche modo, ma con un obiettivo molto concreto che era quello, laddove possibile, di assorbire dopo la morte di Adriano Olivetti le sue attività, diciamo quelle extra fuori dall’impresa, quindi il movimento politico, il movimento comunità che era anzitutto un movimento culturale, la casa editrice, tutte le iniziative sociali di Adriano. Quindi la Fondazione Adriano Olivetti nasce con lo scopo in prima battuta di farsi carico in qualche maniera di queste attività e allo stesso tempo ovviamente di continuare, c’è scritto nello statuto, l’opera di sperimentazione di Adriano Olivetti in termini anche di miglioramento della cultura d’impresa e tutte le cose che conosciamo. Quindi è una Fondazione che ha avuto fin dall’inizio una vocazione molto, come dire, indipendente dalla Olivetti come azienda, questa è anche una delle grandi difficoltà che abbiamo soprattutto negli ultimi anni, quella di far capire che noi non siamo una fondazione direttamente legata ad un’impresa, rappresentiamo per certi versi la storia di un’impresa, non rappresentiamo quell’impresa oggi, che diciamo ha seguito tutta un’altra strada da un punto di vista formale. Non siamo una fondazione di impresa siamo una fondazione legata a una grande figura di impresa e quindi siamo attenti che il nome della fondazione venga citato per esteso: Fondazione Adriano Olivetti, proprio perché poi in realtà Adriano Olivetti rappresenta il vertice, la sorgente di tutto quello che l’azienda Olivetti è stata per molti anni perché, come mi ricordava lei all’inizio della chiacchierata, Adriano Olivetti è stato un pensatore, come dire, la storia della Olivetti è stato il frutto di tante intelligenze. Le imprese così grandi non sono mai personali, ma la Olivetti ha seguito una traiettoria di sperimentazione che veniva da Adriano, che poi è anche una delle ragioni probabilmente per cui una volta morto lui, un po’ di questa spinta di innovazione si sia disgregata nel medio lungo periodo. Questa è un po’ la genesi della Fondazione Adriano Olivetti.
Oggi la Fondazione Adriano Olivetti si rivolge in particolar modo a chi o chi gli piacerebbe raggiungere e perché?
Allora guardi noi abbiamo fondamentalmente due orizzonti operativi. Il primo è quello legato allo studio, alla ricerca, alla sperimentazione per cui facciamo delle attività anche a livello internazionale, di progetti europei che indagano più al mondo della filantropia, il mondo del terzo settore. Quindi sono attività di ricerca di lungo periodo in cui non c’è il pubblico, ma per lo più istituzioni. Abbiamo invece un altro orizzonte di lavoro che è quello legato alla valorizzazione della storia olivettiana non solo da un punto di vista “antiquariale” chiamiamolo così, quindi tutta l’attività legata agli archivi, la digitalizzazione degli archivi, che facciamo insieme con l’Associazione Archivio Storico Olivetti di cui io sono Vice-Presidente, e tutte le attività di studio e di ricerca. Questo orizzonte di lavoro vuole essere anche molto attivo sui ragazzi. L’anno scorso che è stato il 60esimo anniversario della Fondazione Adriano Olivetti abbiamo fatto, insieme alla Struttura di missione anniversari nazionali e delle celebrazioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e con le Camere di Commercio attraverso una loro società che si chiama Si.Camera, un grande progetto a livello nazionale per portare la storia di Olivetti nelle scuole superiori all’interno delle classi dell’ultimo triennio, per raccontare Olivetti non solo dal punto di vista storico Questa è un’attività che oramai facciamo da una quindicina d’anni, perché si parla poco della storia olivettiana. La storia di Olivetti è stata rimossa dall’orizzonte culturale collettivo, non c’è nei programmi di scuola, non si studia a scuola, per cui per colmare questa mancanza, ma anche soprattutto per interrogare la storia di Olivetti per il presente, associamo queste attività di racconto della storia olivettiana con degli incontri con esperti e professionisti attraverso questo progetto che dura un anno con le scuole, che si chiama “Da grande voglio fare l’imprenditore o l’imprenditrice? Dialoghi con Adriano Olivetti”. Mettiamo i ragazzi a contatto, a confronto con startupper, esperti dei nuovi mestieri digitali, dell’impresa sociale, tutta una serie anche di reti e di relazioni che la Fondazione Adriano Olivetti ha e che portiamo all’interno delle scuole proprio per far capire quale potrà essere un futuro di imprenditoria sostenibile e consapevole. È una storia, ma è soprattutto uno sguardo sulla società, uno sguardo sulle persone e quindi il nostro pubblico di riferimento sulla storia olivettiana devo dire la verità sono i ragazzi perché, sono quelli anche in grado di cogliere non solo l’aspetto POP, ma l’aspetto di grande contemporaneità di Adriano Olivetti. Noi un po’ più grandi, intellettualmente ne cogliamo la natura, ma i ragazzi riescono a coglierne più aspetti. Si innesca con loro un meccanismo più naturale d’immedesimazione sui temi olivettiani.
Sa nel mio lavoro dico sempre che raccontare la storia di un’impresa non è solo un’attività retrò, quasi di amarcord, sul quanto eravamo bravi. Ma che la storia permetta anche di tracciare quelle che sono le direttive per costruire il proprio futuro. Cosa le piacerebbe che emergesse da questa chiacchierata che stiamo facendo. Ha un messaggio a riguardo che le piacerebbe condividere?
Guardi questo è un po’ quello che le dicevo anche prima parlando dei ragazzi. La cosa che ci piacerebbe sempre arrivasse del lavoro che svolge la Fondazione Adriano Olivetti, è proprio al di là della retorica. Questa dimensione di grande attualità che ha la storia olivettiana, che poi ovviamente come diceva lei si articola attraverso anche degli strumenti che sembrano “vecchi” polverosi, ma che in realtà hanno una grande attinenza, un grande dialogo con l’attualità. Io dico sempre che il lavoro che noi cerchiamo di svolgere non è quello dell’antiquario, magari che ha anche da fare con delle cose bellissime che però, sono in un qualche modo inanimate, sono semplicemente una testimonianza del passato. Invece quello che cerchiamo di fare è di rendere Adriano Olivetti, come dire, quasi di privarlo della sua dimensione storica, ma di farlo diventare un simbolo. Per noi Adriano Olivetti è un simbolo. È da un lato una storia e va benissimo storicizzarla, che va raccontata, che va molto ancora studiata ed approfondita, però soprattutto è il simbolo non solo di un certo modo di fare impresa, ma di un certo modo di guardare il mondo, che poi può essere modificato, riformato attraverso gli strumenti che la modernità ci dà, nel caso di Adriano Olivetti, negli anni ’30 ’40 ’50 era l’industria, poi è diventato poco prima della sua morte diciamo la tecnologia che è sicuramente pure oggi. Quindi quello che vorrei che arrivasse rispetto al nostro lavoro o rispetto alla nostra identità è questo, cioè il fatto che la Fondazione Adriano Olivetti è ingaggiata su temi attuali, non è un templare istituzionale a guardia di una reliquia.
Prima lei mi parlava della sua tesi realizzata nel 2003 su Adriano Olivetti. Rispetto a quel momento lì, tante cose poi sono accadute, la crisi finanziaria del 2008, una pandemia mondiale solo per citarne un paio. Dal suo avamposto qualcosa è cambiato nel modo di fare impresa?
Questa è una domanda da un milione di dollari. Sicuramente da un punto di vista almeno come dire linguistico, adesso non so quale sia la parola più giusta, è cambiato molto. Adesso non voglio essere sempre “Olivetti riferito”, lo dico sempre, poi ci sono tantissimi imprenditori che sono olivettiani e non sanno nemmeno di esserlo. Sicuramente c’è stata una presa di coscienza sul ruolo che può avere l’impresa come agente positivo e non solo estrattivo nella società, quindi le cose dal 2003 sono molto cambiate, ma non è solo una mia percezione se pensiamo a tutto, la nascita delle B-Corp, la lettera agli azionisti di Larry Fink, nell’ambito della formazione la proliferazione di tutti i master, le scuole sulle sostenibilità e altro ancora. Poi quanto questo sia, come dire a volte vuoto, o quanto ci sia della sostanza dietro va visto un po’ caso per caso, perché se uno poi guarda gli indicatori, la crescita delle diseguaglianze è aumentata non è diminuita. In tutto questo tornano ad essere importanti i ragazzi, perché c’è una presa di consapevolezza da parte loro, per lo meno retorica, che è già un passo in avanti, se lei pensa all’epoca di Adriano Olivetti anche il solo accostare da un punto di vista verbale solidarietà e profitto… cultura umanistica e cultura scientifica… territorio e impresa… erano operazioni molto complicate, incomprensibili. Oggi questi accostamenti non sono più ossimori. Poi quanto questo abbia un impatto effettivo nelle imprese non lo so, di contraddizioni ce ne sono ancora tante, però sicuramente è un po’ cambiato lo scenario.
Mi regala un paio di istantanee, un paio di suoi fotogrammi di Adriano Olivetti?
Parto da questa. Negli archivi della fondazione abbiamo trovato un nastro registrato che poi abbiamo pubblicato in un libretto che si chiama il Dente del Gigante, in cui Adriano Olivetti viene intervistato non si sa bene da chi… da un giornalista che stava preparando un libro sugli industriali italiani. Fanno una lunga chiacchierata in cui lui racconta molto anche di se stesso, delle sue solitudini… delle sue attività con metodo di lavoro, come trascorrere le giornate eccetera… ad un certo punto però racconta una cosa molto bella perché non so se lei sa, uno dei grandi ingegneri, anche se non era un ingegnere era un autodidatta, della Olivetti si chiamava Natale Capellaro che era un ragazzino di Ivrea che era entrato a 12 anni nel centro formazione meccanici, figlio di contadini, che è quello che poi si è inventato la Divisumma, praticamente la prima calcolatrice, calcolatore meccanico Olivetti che faceva le 4 operazioni, che è stata la macchina che ha dato più profitti alla Olivetti nella sua storia. Questo era un autodidatta, sostanzialmente un genio della meccanica, il primo uomo al mondo che è riuscito a far fare a dei pezzi di ferro delle operazioni complesse, quindi Adriano raccontando questa storia al giornalista dice “vede noi abbiamo creato tutte le condizioni, le pre-condizioni, il contesto favorevole perché una personalità come Natale Capellaro potesse esprimersi, arrivando da essere figlio di contadino fino a diventare capo di tutta la meccanica Olivetti, però il fatto che questo genio assoluto della meccanica sia nato ad Ivrea… questo può essere solo merito della provvidenza” e questa cosa qui è interessante perché racconta molto di Olivetti perché è stato veramente una sorta di ingegnere anche dell’immanenza… non so come dire, lui aveva profondissimo un senso trascendentale dell’esistenza e però ha cercato di operare in questa dimensione estremamente pratica, estremamente organizzativa e questo secondo me è un po’ la sua cifra distintiva quando si dice che lui è stato uno dei pochi uomini del ‘900 che ha saputo coniugare in modo efficace pensiero e azione.
Un altro fotogramma al quale sono molto legato è quello che ha scritto Eugenio Montale su Adriano Olivetti. Una cosa molto vera, avvenuta nel 1961 ad un anno della morte, Edizioni di Comunità pubblicò un testo di ricordi di Adriano Olivetti nel quale avevano chiesto a varie personalità nazionali ed internazionali di scrivere un ricordo di Olivetti e Montale scrisse “Degli incontri che ho avuto con Olivetti la cosa che mi ha sempre colpito è stata questa lotta che lui sembrava condurre contro una lonely crowd che lui sentiva dentro di sé e intorno a sé e per me Olivetti è l’esempio di quell’uomo nuovo che dovrebbe nascere in questo Paese se in questo Paese ci fosse ancora qualcosa da salvare”. Questa cosa per me è molto bella, rappresenta molto bene Olivetti, lui era una personalità molto combattuta, ambivalente e sicuramente anche molto sola, ma non sola perché isolato, forse anche quello un po’, ma sola anche perché molto profonda, però c’è anche questo senso di isolamento intorno che poi è anche quello che un po’ è successo anche da un punto di vista sia di storia dell’impresa, storia del Paese, ma anche in modo simbolico, come di quanto questa storia di Olivetti sia stata per molti anni scomparsa a volte dico come un fiume carsico che si è inabissato per decenni e decenni e poi è riemerso in modo molto impetuoso, quindi questa cosa di Montale mi ha sempre molto colpito perché descrive molto bene lui da un punto di vista umano però descrive anche, un po’ con la sintesi che forse solo i grandi poeti sanno avere, descrive, o anticipa anche un po’ quello che sarebbe successo dal punto di vista della narrazione, della storia di questa bellissima vicenda.
#ToBeContinued
Andrea Bettini