
Nelle storie d’impresa, a volte, il punto di svolta arriva nei luoghi più improbabili. Per Gianluca Maruzzella è successo davanti a una segreteria del Politecnico di Milano: una coda interminabile, la pioggia che cadeva lenta, un’ansia crescente mentre le ore per consegnare la domanda di tesi si consumavano. Guardando quei volti simili al suo, tutti in attesa della stessa risposta, ha pensato che doveva esistere un modo più intelligente — e più umano — per ottenere ciò che serviva.
Da lì, più che un lampo, partì una domanda: perché non esiste una tecnologia che risponda a tutti, in modo semplice e immediato, evitando a ciascuno parte di quella fatica inutile?
Non era ancora una startup, non era ancora un progetto. Era solo un ragazzo che vedeva un problema e immaginava che potesse essere risolto.
La sera stessa, davanti a una birra con alcuni amici – quelli che qualche mese dopo sarebbero diventati i co-founder – provarono a trasformare quell’intuizione in qualcosa di concreto. Nessuno di loro aveva esperienza aziendale, nessuno sapeva come funzionasse davvero il mondo del lavoro. Ma avevano entusiasmo, curiosità e una sana dose di incoscienza. Quella combinazione che, a volte, permette di credere nei semi molto prima che germoglino.
Il primo tentativo, rivolto alla segreteria, fu un fallimento. Ma, paradossalmente, fu anche l’inizio di tutto: se un sistema del genere non interessava all’università, forse poteva interessare a qualcun altro.
Da lì iniziò la loro vera maratona: incontri, eventi, pitch improvvisati, la voglia instancabile di capire se quella tecnologia potesse aiutare le aziende a migliorare il modo in cui parlavano con le persone. E fu proprio un manager di Bayer – un nome che torna spesso nella memoria di Gianluca – a dire il primo “sì”.
Non un sì convinto da un business plan, ma dalla fiducia. Dalla curiosità verso cinque ragazzi che cercavano di fare qualcosa di diverso. Quel sì fu la prima onda presa davvero.
I primi tre anni furono una sorta di apprendistato accelerato. indigo.ai – che allora non si chiamava ancora così – era una piccola boutique di consulenza che costruiva soluzioni su misura per ogni cliente. I progetti cambiavano, ma la fatica era sempre la stessa: preparare, ordinare, educare i dati perché potessero dialogare con le persone.
All’epoca molte aziende provavano a risolvere gli stessi problemi con un mix di tecnologie complesse e costose – come IBM Watson affiancato da system integrator – spesso con risultati deludenti.
Il vero vantaggio competitivo del quintetto non era quindi il modello, ma la dedizione maniacale con cui trattavano il dato, la capacità di addestrare la macchina in modo che sapesse davvero comprendere e interagire.
È in quel lavoro certosino che c’era già l’essenza di ciò che, anni dopo, avrebbe reso indigo.ai un riferimento: unire la potenza dei modelli tecnologici alla delicatezza delle relazioni umane.
Poi accadde un’altra cosa: nella loro vita entrò un paper scientifico dal titolo destinato a restare nella storia, Attention Is All You Need. Quel modello – i Transformers – avrebbe aperto la strada a ciò che oggi chiamiamo intelligenza artificiale generativa.
Loro lo lessero quando ancora era solo una possibilità lontana. Ma lo riconobbero. E come spesso accade agli innovatori veri, non erano un caso di tempismo perfetto, ma di resilienza. Per anni il mondo non si accorse davvero di quello che stavano costruendo. Ma loro continuarono a remare, controcorrente, molto prima che l’AI diventasse di moda.
Quando nel 2020 uscì GPT-3, indigo.ai era già pronta. La tecnologia cresceva, il mercato invece ancora no. Fino a dicembre 2022. Con l’arrivo di ChatGPT, improvvisamente tutto il mondo si accorse di ciò su cui Gianluca e i suoi soci lavoravano da anni. L’architettura del prodotto non cambiò: era già predisposta per accogliere modelli sempre più potenti. A cambiare, in modo radicale, fu lo sguardo del mercato.
I loro interlocutori non erano più solo gli innovation manager, ma il marketing, il customer care, le operations. Da “lo proviamo” si passò a “misuriamone l’impatto”. Efficienza, accuratezza, soddisfazione cliente: la conversazione entrò nel cuore dell’azienda.
È in quel momento che indigo.ai smette di essere un progetto visionario e diventa una strategia. Un sistema capace di trasformare la potenza dell’AI in relazioni più umane, immediate, empatiche.
Gianluca la descrive spesso come una sorta di inverter: una tecnologia che prende la forza grezza dei modelli di intelligenza artificiale e la trasforma in energia utile, re-immessa nelle interazioni tra aziende e clienti. Un modo nuovo per costruire una vera workforce digitale, composta da Agenti AI specializzati che dialogano tra loro e con le persone proprio come farebbe un team reale.
Il passaggio da consulenza a prodotto non è stato un gesto improvviso, ma un’evoluzione naturale: man mano che la piattaforma si consolidava, una parte veniva condivisa con i clienti – analytics, comportamenti della macchina, possibilità di educarla – dando vita a un modello quasi di co-design continuo. Uno scambio che ancora oggi rappresenta uno dei motori più potenti dell’azienda.
Nel 2025 arriva un’altra svolta: indigo.ai chiude un round di Serie B da 10 milioni di euro – a un anno dal precedente round da 2,5 milioni – con la partecipazione del Gruppo Azimut. Una conferma finanziaria di un percorso che stava già mostrando tutta la sua maturità. Oggi il team conta quasi cinquanta persone.
Quando parla di questi dieci anni, c’è un momento in cui la voce di Gianluca si fa più calma. I ringraziamenti arrivano senza esitazioni: al manager che ha creduto in loro per primo; ai soci, compagni di viaggio e di resistenza; al team che ha scelto di camminare insieme; agli investitori. E poi a sua moglie. Una presenza che ritorna più volte nel racconto, come una bussola. Lavora nella tecnologia applicata alle risorse umane, fa l’advisor per altre realtà e, quando c’è un dubbio da sciogliere, è una delle prime persone a cui Gianluca si rivolge. «È una forza della natura», dice. Ed è evidente che non lo dice per circostanza.
Accanto al lavoro, c’è la musica. Tanta. Africana, jazz, giapponese. Una colonna sonora che cambia a seconda dei periodi, e che per Gianluca è un modo per viaggiare anche quando è fermo.
E poi c’è il surf. Non quello patinato dei film, ma quello vero: tre ore e mezza a remare controcorrente per dieci secondi perfetti. Una metafora che forse dice più del suo percorso imprenditoriale di qualsiasi altra immagine.
Oggi indigo.ai guarda all’Europa. L’obiettivo è chiaro: diventare il punto di riferimento per tutte le aziende che vogliono far evolvere la propria customer experience attraverso agenti di intelligenza artificiale capaci di essere efficienti, affidabili, ma anche profondamente umani. E chissà, magari tra qualche anno questa intervista la rifaremo a Madrid, a Parigi, a Berlino. O in un luogo dove un’altra onda avrà portato Gianluca.
Intanto resta l’immagine iniziale. Un ragazzo di fronte a una fila infinita, senza sapere che quella fila lo avrebbe portato lontanissimo. Che lo avrebbe costretto a remare, cadere, rialzarsi, riprovare. E che, un giorno, lo avrebbe portato esattamente qui: a costruire tecnologie nate per restituire alle persone ciò che, in fondo, vale più di tutto. Il tempo e il modo di viverlo meglio.
#ToBeContinued
Andrea Bettini