Intraprendi Innova Ama

Questa è una di quelle storie che bisognerebbe portare nelle scuole. Non che ci sia nulla di eclatante. Nemmeno le si possono attribuire insegnamenti doverosi da adottare. Però, nella sua semplicità, fa quello che dovrebbe fare una bella storia: stare bene e dare un tocco di speranza in più a un futuro sempre più complesso.

Come in tutte le storie ci sono degli elementi caratterizzanti. In questo caso c’è la passione, una buona dose di intraprendenza e sicuramente anche amore e gratitudine. Ma proviamo ad andare per ordine. Riavvolgiamo il nastro del tempo e andiamo a fine anni ’80. Facciamo sì che in una famiglia della ridente Chioggia (per avere una versione natalizia di questa cittadina lagunare vedasi la serie Odio il Natale disponibile su Netflix in questi giorni) un bambino di 6 anni riceva da un amico del padre, di ritorno dall’America, uno dei primi portatili. Qui possono accadere due cose. La prima, una distruzione improvvisa del PC dopo essere stato ripetutamente scaraventato a terra, modello strumenti musicali dei più recenti Maneskin a Las Vegas o di iconiche rockstar del passato, perché il ragazzino si aspetta un regalo decisamente diverso, oppure una scintilla. Il nostro caso è il secondo. La scintilla in questione non è nemmeno una di quelle della Stratocaster che Jimi Hendrix dava fuoco, ma è l’espressione della curiosità di un giovane come Matteo Silverio, che all’apprendimento della lingua italiana nel suo primo anno di scuola elementare affianca quella di un altro linguaggio. Il linguaggio in questione è quello della programmazione, all’epoca non può che essere il DOS e in suo primo utilizzo decisamente giocoso da parte di Matteo gli permette di mandare Pac-Man in giro agli amici. Dato “il primo bacio” all’informatica, il suo amore verso la materia non può che continuare ad alimentarsi negli anni adolescenziali con un diploma come perito elettronico, all’ITIS della sua città dove apprende tutta la parte hardware, ma gli viene pure insegnato a saldare, a realizzare circuiti stampati, fino al calcolo delle resistenze, transistor e via dicendo.

La storia potrebbe avere un suo naturale epilogo qui, se non fosse che il nostro Matteo ha anche un’altra passione. Se fosse ancora bambino sarebbe riconducibile ai mattoncini LEGO, visto che però deve intraprendere un percorso universitario non può che sfociare in un corso di laurea progettuale. A Matteo piace costruire. Fa il test d’ingresso sia ad ingegneria civile a Padova sia ad architettura a Venezia. Li passa entrambi, quello in laguna, particolarmente bene. Nell’anno 2005 lo IUAV ha una nuova matricola con le sue generalità. Pochi anni dopo, un nuovo laureato in architettura.

Altro punto di svolta. L’inizio di un lavoro. L’incontro con un primo mentore. Inizia a lavorare presso lo studio AI Progetti di Mestre. Un’opportunità per fare una prima esperienza. L’occasione di conoscere Massimo Furlan, uno dei fondatori dello studio, una delle persone che Matteo non dimentica mai di ringraziare per avergli trasferito le basi del management. L’organizzazione del lavoro. Il coordinamento delle risorse. Un modo di lavorare. La gestione del tempo. Già proprio quest’ultima diventa quasi un’ossessione per Matteo. Un’ossessione che però nasce da una necessità. In questo caso non si tratta di amore per il lavoro, ma di amore nel senso più romantico del termine. Nella sua vita da qualche anno era entrata una persona che sarebbe stata (ed è) un acceleratore dei sentimenti in una persona già di per sé entusiasta della vita. Il suo nome è Marta Donà. Il primo incontro avviene nel settembre 2006 presso la Rari Nantes di Padova e una disciplina come il Dragon Boat ne è complice. Matteo è lì per gli allenamenti per la sua seconda trasferta (questa volta da titolare) in Cina ai mondiali universitari. Marta, un passato da atleta di canottaggio, una laurea in Scienze delle Comunicazioni da poco conseguita, un futuro da costruire e un’abbronzatura ancora calda da una vacanza last minute in Messico appena terminata, è lì per partecipare agli allenamenti dell’equipaggio misto. Si conoscono. Si piacciono. Si divertono e la spedizione in Cina non fa altro che legarli. Ma cosa centra tutto ciò l’organizzazione del tempo di Matteo? Marta è di Murano. Vive a Padova e sta continuando gli studi in giornalismo a Verona. Qui se non si sa ben pianificare le giornate, il tempo da trascorrere insieme diventa limitato. Ma Matteo nel lavoro oltre a far bene le cose le fa velocemente, e velocità insieme ad organizzazione sono due cose che fa sue e trasferisce anche nella pianificazione della sua vita privata.

Marta Donà & Matteo Silverio

La storia potrebbe concludersi anche qui. Matteo ha un bel lavoro e una donna che ama. Ma dopo 4 anni di progetti nello studio di Massimo, sente la necessità di fare un passo in più. Di aggiungere un tassello alla sua storia, che oltre essere caratterizzata dall’amore per Marta ha nella programmazione e nella progettazione due grosse passioni. Sente la necessità di esplorare e approfondire i temi legati alle nuove tecnologie, alla fabbricazione digitale e all’elettronica applicata al mondo del design. Si prende un anno sabatico e va a prendersi un Master in Advanced Architetture allo IAAC di Barcellona. Va proprio a “prenderselo” questo master Matteo e qui torna la sua attitudine ad intraprendere. Massimi voti. Premiato come miglior studente e una chiamata, ancor prima di concludere questo percorso, da Torino.

È un altro punto di svolta. A chiamarlo è “un certo” Carlo Ratti e per Matteo si aprono le porte per un’altra esperienza intensa ed entusiasmante. Lo fanno immediatamente design leader all’interno di uno studio che è in pieno sviluppo. Dopo poco si ritrova ad essere project manager. Titoli certo, ma anche assegnazione di merito. Per ciò che Matteo aveva già fatto sul campo in pochi anni. Per ciò che dimostra di saper fare in poco tempo. In tutto questo Marta non sparisce, anzi. Se a Barcellona lo raggiungeva nei week-end, ora si trasferisce direttamente a Torino con lui. Lascia per un anno Murano, dove nel frattempo era tornata a vivere per lavorare nella storica azienda di famiglia. Sarà un anno intensissimo per entrambi. Per il loro amore. Per ciò che Matteo apprende da questa esperienza. Sicuramente affina ulteriormente le sue capacità di gestione e management del cliente, ma inizia pure a raccontare un progetto. Carlo Ratti non è solo un professionista competente, è anche un docente del MIT e uno straordinario narratore e divulgatore.

Proprio lì a Torino anche dai continui confronti con Marta matura la convinzione che sia giunto il momento di trasferire un po’ di futuro, tecnologia ed innovazione, in ambiti permeati di una certa storicità. Innescare un processo di trasferimento delle conoscenze. Attivare processi di innovazione semplici, comprensibili, adattabili e che abbiano nella sostenibilità il loro focus.
Tornano a Murano. Stanchi, ma felici. È estate. Marta invita Matteo a prendersi un periodo di riposo, dopo un anno così elettrizzante. Il riposo per Matteo dura veramente poco. Quasi all’indomani conosce il Fab Lab di Ca’ Foscari, un piccolo laboratorio di fabbricazione digitale all’interno dell’ateneo veneziano. È ancora amore a priva vista. Matteo è veloce. È veloce anche nel trasformare un pensiero in azione. A strettissimo giro organizza con loro un workshop di introduzione alle nuove tecnologie da applicare ai maestri muranesi del vetro. Il fato o chi per esso, vuole che quello sia l’anno della prima edizione della Venice Glass Week. Ca’ Foscari demanda a loro la gestione di un progetto. Marta entra a pieno titolo nell’iniziativa per la parte di curatela dei contenuti e la gestione della comunicazione. Ciò che viene realizzato è un primo esempio di quello che alcuni definirebbero “contaminazione” di competenze. Grazie anche al Consorzio Promovetro vengono individuate sei vetrerie e ad ognuna di esse viene assegnato un designer, ma soprattutto si sperimenta, “si gioca” con la tecnologia (forse come faceva lo stesso Matteo a 6 anni con il suo primo portatile). L’output che ne esce sono dei progetti esposti presso la sede della Camera di Commercio di Venezia. La mostra ha successo. Molti di quei progetti riceveranno riconoscimenti, ma soprattutto è l’inizio, l’inizio di una collaborazione con i maestri dell’antica arte del vetro di Murano. Passato e futuro che si incontrano in un presente. Anche qui Marta ha un ruolo fondamentale. Lei è di Murano, la sua famiglia, la sua azienda è conosciuta da tutti lì. In un certo qual modo è la modalità per legittimare un architetto foresto, curioso, atipico, che parla di programmazione, tecnologia ed innovazione. I due nel frattempo si erano sposati, ma la loro non è l’unica unione. L’unione che si avvia è quella tra questi due mondi. Uno fortemente proiettato al futuro e all’utilizzo delle tecnologie e l’altro che tramanda di generazione in generazione una conoscenza artigiana dal valore assoluto. Matteo attiva circoli virtuosi tra il mondo accademico e le imprese di quell’isola. Progetti di circular economy selezionati dal design index (la porta d’accesso che porta dritto al prestigioso Compasso D’Oro). Condivide come docente le proprie conoscenze con giovani studenti all’interno di un master in architettura digitale allo IUAV. Inizia ad insegnare design computazionale e fabbricazione digitale (stampa 3D). Ma non è tutto.

Matteo oggi è un consulente, un designer, un docente (un padre), ma è diventato anche un imprenditore. Rehub è il nome della start-up e praticamente è un’azienda che nasce all’indomani dell’ultima Aqua Granda del 2019, subito prima del Covid, come un piccolo seme che mette insieme il vetro di Murano e le nuove tecnologie. La proiezione del vetro nelle nuove tecnologie “in salsa sostenibile” come piace dire scherzosamente allo stesso Matteo. Un’idea di nuova impresa che nasce proprio dal guardare con lenti diverse ciò che accade nelle vetrerie di Murano. Con loro aveva già iniziato a collaborare e aveva introdotto nel modo di lavorare tradizionale progetti speciali in cui la stampante 3D piuttosto che il design computazionale offrivano altre sfere interpretative e realizzative del vetro. Matteo proprio osservando queste realtà aveva capito che c’era un problema di scarti di lavorazione. Mediamente il 50% del vetro lavorato in una vetreria rappresenta materia di scarto. Sono poche le realtà, che dopo averlo frantumato, lo riutilizzano per fare cornici o altro, per lo più ne viene fatta un’accumulazione seriale, che seppur non rappresenti materiale pericoloso, è un materiale speciale e come tale va trattato, perciò traportato in un certo modo, analizzato e poi conferito in discarica.

L’idea di Rehub è quella di prendere questo scarto e trasformarlo in una specie di pongo, una pasta che può essere lavorata a temperatura ambiente e che può essere rimodellata utilizzando le mani oppure estrusa attraverso una stampante 3D. Lo scarto del vetro ha nuova vita. Dalla sua trasformazione si possono realizzare nuovi oggetti che possono essere gioielli, vasi, piatti o dei decori che poi possono essere applicati all’interno delle produzioni delle fornaci. Rehub non è una vetreria, ma sviluppa processi e tecnologia. È un ponte tra mondi lontani. Tecnologia e tradizione.

È tutto? Decisamente no. Matteo ha da poco compiuto 37 anni. Mentre sto scrivendo ha da poco terminato la sua lezione alla Libera Accademia di Belle Arti di Rovereto dove insegna modellazione 3D e design computazionale, ma soprattutto di idee ne ha diverse. Perché la sua storia dovrebbe essere raccontata nei tanti banchi di scuola oggi? Perché dà speranza. È un segnale. Un segnale che c’è un modo di fare innovazione senza perdere di vista la realtà in cui si vive. Si possono creare processi produttivi senza essere in un garage della Silicon Valley. Questo può accadere anche in una piccola isola come Murano. L’importante è avere voglia di fare e di mettersi in gioco. Solo così possono nascere cose belle.

Tutto ciò è retorica? Assolutamente no. È un’equazione che dice che se metti insieme passione, intraprendenza e amore, puoi produrre degli utili, facendo cose utili. Caro Matteo non vedo l’ora di raccontare le prossime pagine del tuo libro. Quelle che verranno. Perché ho l’impressione che il meglio deve ancora venire.

#ToBeContinued

Andrea Bettini