Il racconto può rendere felici?

Come il racconto può rendere felici
Parlare di felicità non è semplice. Si rischia di banalizzare i concetti o di intraprendere voli pindarici aggrappandosi alla filosofia. Ma il confronto emerso, la scorsa settimana, durante il workshop “Marketing e felicità” al Ferrara Sharing Festival, è stato qualcosa che è andato oltre ai classici stereotipi legati al tema.
 
Dopo l’introduzione di Fulvio Fortezza, docente di Marketing presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Ferrara, si sono susseguiti i preziosi contributi di Bruno Contigiani, fondatore de L’Arte di Vivere con Lentezza; Simone Grillo, servizio strategie e comunicazione di Banca Etica; Luciano Manzo, amministratore delegato di Smartika ed Enrico Fontana, responsabile Economia Civile di Legambiente. Dopo queste diverse e interessanti soggettive sul tema, è stata la volta del mio intervento mirato a quanto e come il racconto possa incidere sullo stato mentale delle persone, per trasferirsi poi in azioni tangibili.
 
Ancor prima di parlare mi sono venuti in mente i tanti visi delle persone che incontro ogni giorno nelle diverse aziende. Era come se in quel momento avessi voluto dar voce ai tanti di loro. Lavorare sulle risorse umane attraverso lo storytelling è uno dei tanti privilegi che ho. Entri nei più profondi sentimenti delle persone. Mentre dialoghi con loro spariscono i ruoli ed emergono i valori. È un processo straordinario che punta il riflettore sul capitale più importante di un’impresa: il capitale umano. Il racconto interno di un’azienda non è accessorio, ma è alla base per la (ri)costruzione dell’anima di un’impresa. Solo in un secondo momento, solo se fatto questo si può poi passare alla stesura di quello che sarà, solo allora, un racconto d’impresa coerente verso l’esterno.
 
Il tema della felicità in un processo di questo tipo è alla base. È condividendo le storie delle tante persone che lavorano in un’organizzazione aziendale e mettendole tutte su un unico piano narrativo, che si compie il primo passo verso una ridistribuzione del merito e l’accentuazione dello spirito solidaristico innato in un’azienda. Se si vogliono raggiungere grandi risultati non è pensabile non mettere la persona al centro. Ascoltarne i pensieri e metterle nelle condizioni migliori per esprimere il meglio di sé. Il tutto in una visione collettiva dove devono emergere quelli che sono i valori di un’azienda, valori che non devono essere una lista di buoni propositi, ma le fondamenta per una crescita consapevole.
 
Un’impresa non è l’atto costitutivo iscritto ad un registro, ma l’espressione vivente di un modo d’intendere la vita all’interno per tutti i suoi collaboratori e all’esterno, come riferimento territoriale e sociale di una comunità. È nel momento stesso che si adotta una metodologia narrativa in ambito risorse umane che si innesca un meccanismo virtuoso di non ritorno. Si tratta di mettersi in gioco. Di guardarsi allo specchio per capire chi si è prima come persone e poi come professionisti. Solo facendo questo si può beneficiare poi di quell’alchimia e di quella forza data dalla consapevolezza di ognuno dei collaboratori di un’impresa di sentirsi parte di una storia comune.
 
Quindi alla domanda se il racconto può rendere felici, la risposta non può che essere positiva a condizione però che sia un racconto onesto e sincero, che non nascondi le difficoltà e che sia in grado di valorizzare il singolo, non in un’ottica di competizione interna, ma di miglioramento personale in un contesto positivo. Se ogni singolo si sentirà in grado di scrivere un nuovo capitolo della storia della sua azienda, vuol dire che il racconto dell’intera impresa non potrà che essere entusiasmante.
 
Tutto ciò non è facile, ma non è nemmeno una chimera. È piuttosto un atteggiamento responsabile per fare un’impresa di valore.