Mancava poco più di un’ora alla presentazione di quel progetto. Il risultato era stato sorprendente. Per la prima volta quell’azienda si era messa “a nudo”, per ripercorrere la propria storia e allo stesso tempo per tracciarne le linee del suo prossimo futuro. In auto, imbottigliato nell’assurdo traffico di una normale mattina di lavoro, stavo cercando di capire quale fosse il modo migliore per trasferire la vera essenza di un percorso di corporate storytelling importante per quell’impresa, ma non solo per essa.
Con lo sguardo ad un semaforo rosso, la mente si muoveva alla ricerca di un’adeguata introduzione a ciò che d’importante era già stato realizzato. In quel preciso istante due pensieri paralleli si intersecarono inaspettatamente.
Il primo era rivolto ad una telefonata che avevo da poco ricevuto da un amico. Un amico che voleva farmi gli auguri, un “in bocca al lupo” per quella giornata, e che, commentandomi il progetto, concluse la telefonata con queste parole: “Sai stai facendo una grande cosa. In un periodo così particolare è difficile trovare anche le giuste motivazioni… sentirsi parte di una storia per chi lavora è fondamentale… se nell’azienda dove lavoravo ci fosse stato questo tipo di approccio, forse avrei resistito di più…”. Con queste parole praticamente lui mi aveva sintetizzato il primo pilastro su cui si poggiava quel progetto: ricreare uno stimolante spirito di gruppo tra tutti coloro che partecipavano ad un’impresa. Condividere una riflessione collettiva affinché si possa apprezzare quanto realizzato fino ad oggi e quanto di grandioso si sarebbe ancora potuto fare. Sentirsi parte di una storia, il collante che fa la differenza.
Il secondo input, per descrivere che cos’era quel progetto, me l’aveva dato l’ascolto di un intervento di una ragazza alla radio. La trasmissione era dedicata all’evoluzione dell’ufficio stampa, in particolar modo sull’utilizzo del web. Questa giovane ragazza illustrava che l’azienda per la quale lavorava era presente nei più importanti social network e contava un numero cospicuo di fan e di follower. Però tutti quei dati dei quali compiacersi trovavano una stonatura con la risposta alla domanda del giornalista della trasmissione “Cose ne fate di tutti questi contatti, cosa comunicate a loro?”. E’ qui che mi accorsi che la giovane responsabile dell’ufficio stampa stava commettendo “un errore”: “abbiamo la possibilità di comunicare i nostri nuovi prodotti, di veicolare i nostri comunicati stampa ad un numero elevatissimo di potenziali clienti”.
Quella professionista delle PR online si era dimenticata un passaggio fondamentale. Non conta tanto a quanti comunicare, ma che cosa comunicare. Il mero comunicato stampa più efficace, redatto nel modo migliore, rimane pur sempre una comunicazione che non riesce a trasferire l’anima di un’impresa. In alcuni casi queste comunicazioni possono diventare dei veri e propri boomerang per le aziende stesse.
Perciò il secondo pilastro di quel progetto di corporate storytelling che stavo per andare a presentare era quello di fornire dei contenuti in grado di veicolare l’effettiva identità dell’azienda. Togliere le paillettes e i lustrini per mettere in primo piano l’umanità che c’è dietro a quell’impresa. Un’umanità fatta da singole storie, dalle storie dei singoli protagonisti dell’azienda che s’intrecciano al fine di creare qualcosa di ancor più grande.
Erano questi i due piani sui quali si muoveva quel progetto: la motivazione interna e la comunicazione verso l’esterno di qual’era l’anima di quell’impresa. Piani che si sovrapponevano, mantenendo la persona al centro dell’universo aziendale.
Non rimaneva che condividere tutto ciò con il pubblico presente.