Manfred e Peter Erlacher – Lo swing della continuità

Manfred e Peter Erlacher, fondatori di Chervò
Manfred e Peter Erlacher, fondatori di Chervò

 

C’è un altopiano nel sud-est dell’Algeria, il Tassili n’Ajjer, dove la sabbia incontra la roccia e il tempo sembra essersi fermato. È un luogo estremo, remoto, in cui il caldo mette alla prova i corpi e il silenzio costringe ad ascoltare. È lì che, nella loro memoria, comincia la storia di Chervò.

All’inizio degli anni Ottanta, Manfred e Peter Erlacher attraversano quelle terre con addosso non solo il peso del viaggio, ma anche un’intuizione ancora fragile. Portano con sé dei prototipi di abbigliamento e li mettono alla prova in condizioni che non concedono sconti. Non è una strategia di marketing. È un gesto istintivo: capire se un’idea può resistere, prima ancora che al mercato, alla realtà.

Il vento del Sahara non fa prigionieri. La luce è accecante, il caldo implacabile. Quei capi vengono piegati, vissuti, stressati. In quel collaudo primordiale — lontano da uffici e passerelle — si intravede già la traiettoria di un marchio che, negli anni, costruirà la propria identità su un equilibrio apparentemente impossibile: funzionalità e bellezza, performance e stile, tecnica e misura.

Chervò nasce così: da un attraversamento. Da un gesto che non si interrompe, ma trova equilibrio nel movimento.
All’inizio, però, non si chiama ancora Chervò. Il primo nome è Caribù, la renna nord americana, un riferimento alla natura, alla resistenza, al movimento. Un nome coerente con la loro idea di abbigliamento: non qualcosa che si impone, ma che accompagna chi lo indossa. Un capo come alleato.

Poi arrivano gli Stati Uniti, durante un viaggio di lavoro che li porta anche a Chicago, dentro quel mondo di fiere, incontri e appuntamenti in cui le intuizioni si misurano con la concretezza del mercato. È lì che scoprono che quel nome, Caribù, non è registrabile negli USA. È uno shock, ma anche un’occasione. Perché un marchio non è solo un prodotto: è una parola che deve poter camminare nel mondo.

Serve un nuovo nome. Serve un’identità pronunciabile in più lingue, capace di portare con sé un’immagine chiara. La scelta cade sul cervo: elegante, resistente, sempre in movimento. Da quel riferimento nasce “Chervò”, un suono che conserva il legame con l’italiano, ma allarga subito lo sguardo oltre i confini. È un passaggio decisivo. Perché costruire un brand significa anche saper rinunciare, per farlo crescere.

Il cuore della loro storia, però, non è fatto solo di passaggi esterni. È fatto prima di tutto di un patto interno: quello tra due fratelli che scelgono di non pestarsi i piedi.

Peter vive nel mondo del prodotto: tessuti, colori, stile, vestibilità. È lì che si gioca una partita fatta di sensibilità e di ossessioni buone, quelle che distinguono un capo giusto da uno qualsiasi. Manfred si muove nella strategia: gestione, commerciale, struttura, visione economica. È la bussola che tiene l’azienda in equilibrio mentre il mercato cambia.
Non raccontano la loro complementarità come un’epopea familiare, ma come qualcosa di naturale. Ognuno rispetta il campo dell’altro. Un dettaglio raro, nelle imprese di famiglia: la capacità di distinguere la vicinanza dalla sovrapposizione.

Per molti anni il percorso non è lineare. Chervò si muove tra sport e tempo libero, ricerca e identità. C’è una stagione importante legata allo sci, coerente con le origini e con l’idea di performance. Ma a un certo punto il golf inizia a imporsi come linguaggio più affine.

Non per moda, ma per natura. Il golf richiede tecnica, ma anche misura. Eleganza senza ostentazione. Continuità. Permette di lavorare su una promessa chiara: capi che funzionano, che durano, che si portano bene. Senza urlare.

Tra il 1989 e gli inizi degli anni Novanta arriva uno snodo cruciale. L’azienda viene ceduta a Ellesse: Manfred ne assume la guida come CEO, mentre Peter porta avanti la visione di prodotto come capo designer. Nel 1994 — racconta Manfred — Ellesse viene venduta. E solo più tardi i fratelli riacquistano l’azienda, avviando un nuovo inizio a Costermano sul Garda.

Non è un passaggio raccontato con nostalgia o rivalsa. È una lezione. Capiscono cosa significa davvero essere responsabili di un marchio: non possederlo, ma custodirne la direzione. Ricominciare, quando tutto invita a fermarsi.

Quando arriva la metà degli anni Duemila, raccontano, la decisione diventa netta: escono dallo sci. Non è solo una modifica di catalogo. È una scelta di campo. Rinunciare per diventare riconoscibili. Da lì la traiettoria si chiarisce: golf, certo, ma anche un tempo libero che conserva lo stesso DNA — comfort, tecnica, eleganza.

La visione diventa internazionale. Oggi Chervò è presente in oltre 40 Paesi, con centinaia di punti vendita nel mondo. Numeri che non vengono esibiti, ma che danno la misura di un’idea che ha imparato a viaggiare.

Ci sono mercati che diventano specchi. Giappone e Corea, per esempio, dove il dettaglio conta davvero e lo stile viene osservato con attenzione. E poi il Made in Italy, che per loro non è una bandiera, ma un passaporto reale: apre porte, ma solo se il prodotto mantiene la promessa.

Per Peter, ogni collezione è come scalare una montagna. Arrivi in cima e, proprio quando potresti fermarti, ricominci. È un’immagine che somiglia molto al mestiere dell’impresa: non esiste un punto finale, ma un movimento continuo tra visione e disciplina.

La crisi più dura, dice Manfred, è stata quella del Covid. Perché ha colpito ciò che le imprese controllano meno: il flusso, la fiducia, la continuità. La risposta non è stata il controllo ossessivo, ma la capacità di adattarsi senza perdere identità.

E poi c’è il futuro. Che arriva sempre con una domanda silenziosa: cosa resta, quando i fondatori iniziano a guardare oltre se stessi? Nel racconto compare Alex, figlio di Manfred. Ha fatto esperienze all’estero, anche in India. Non come dettaglio anagrafico, ma come segnale: il passaggio generazionale, per loro, non può essere una semplice consegna di chiavi. Deve essere un percorso. Una distanza necessaria per tornare con uno sguardo nuovo.

Nelle parole di Alex — che oggi presenta le collezioni con naturalezza e misura — non c’è l’urgenza di cambiare tutto, ma la capacità di stare dentro un linguaggio che esiste già. Di comprenderlo, di rispettarlo, di proseguirlo. Come uno swing che non spezza il gesto, ma lo accompagna fino in fondo.

Nel futuro, dicono, occorre avere coraggio. Non come azzardo, ma come continuità. Come coerenza. Come capacità di restare fedeli a una promessa mentre il mondo cambia.

Se si guarda Chervò dall’esterno, si vede un marchio internazionale dell’abbigliamento tecnico-elegante per il golf. Ma dentro questa storia c’è qualcosa di più: due fratelli che hanno scelto di non confondere l’impresa con l’ego, di trasformare le fratture in apprendimento, di trattare ogni collezione come una nuova salita.

In fondo, tutto era già lì, in quel primo attraversamento nel Tassili n’Ajjer: la prova, l’essenziale, la resistenza. E l’idea che per costruire qualcosa che duri bisogna partire da un luogo che non ti fa sconti — e imparare a camminare lo stesso.

#ToBeContinued
Andrea Bettini