Francesca Corrado – L’arte fragile del rialzarsi

Francesca Corrado, Fondatrice Scuola di Fallimento
Francesca Corrado, Fondatrice Scuola di Fallimento

 

Francesca Corrado si definisce così: un’ideatrice. Una parola semplice, quasi timida, ma che per lei contiene un mondo. Perché ideare non significa soltanto creare: significa attraversare la vita trasformandola. Non è il risultato che conta, ma il viaggio. È lì che si impara davvero. È lì che si cresce. È lì, soprattutto, che si impara a rialzarsi.

La sua storia parte da Crotone, dal mare ionico che le ha insegnato presto la profondità e l’incertezza dell’orizzonte. Nel 1999 lascia la Calabria per Modena, attratta da un corso di economia politica scoperto per caso su una guida dello studente. È una scelta che non sa spiegare del tutto, ma che sente giusta. E in effetti lo sarà: la porta d’ingresso a una vita che ancora non immaginava.

Gli anni del dottorato tra Modena, Parigi e gli Stati Uniti la mettono di fronte a un mondo nuovo. Di giorno scrive la sua ricerca, di notte immagina con alcune colleghe una startup che unisca benessere, pari opportunità e bilancio sociale.

Quando rientra in Italia nel 2011, ottiene un contratto universitario e lancia quella startup che aveva costruito nelle notti americane. La società cresce, viene premiata, trova riconoscimento. Francesca ci mette competenze, disciplina, determinazione. Ha davanti a sé una strada che sembra tracciata.

Poi nel 2015, nel giro di due mesi, quando ha 35 anni, tutto crolla.

Francesca perde la società, il contratto universitario, la casa, la relazione. La perfezionista che non accettava la sconfitta — la ragazza che nel campo da pallavolo non salutava nemmeno le avversarie quando era troppo arrabbiata per aver perso — si trova improvvisamente a un passo dal crollo. E infatti crolla. In silenzio.

Per sei mesi mente a tutti: agli amici, ai colleghi, persino a sé stessa. Vive tra ospitalità occasionali, valigie lasciate in macchina, pensieri troppo pesanti per essere raccontati. Finché il corpo cede e la porta in ospedale.

Lì un medico le rivolge una frase che segna una linea di confine nella sua vita: «Il problema è che stai ingoiando bocconi amari». È una crepa luminosa nel buio. Francesca capisce che ciò che la stava distruggendo non era la caduta, ma il modo in cui la teneva chiusa dentro. Le metafore, dice spesso, possono affondarti o salvarti. Quella l’ha salvata.

Ritorna in Calabria, dove la malattia del padre — l’Alzheimer — riempie le sue giornate. È un dolore senza rumore, fatto di gesti ripetuti, di smarrimenti e piccole conquiste. Ma è anche una scuola di vita: «Un errore, prima di essere tale, è sempre una scelta fatta con l’intento di dare il proprio meglio».

Con suo padre, Francesca impara una lingua nuova: quella dei giochi da tavolo, che diventano un ponte tra chi dimentica e chi non ha ancora le parole. La nipotina che ancora non parlava e il nonno che non ricordava riuscivano a capirsi così. Quel mazzo di carte la bambina lo porterà con sé per mesi dopo la morte del nonno: era il suo modo di continuare a parlargli.

In quel periodo, Francesca inizia a intuire che non è precipitata in un burrone senza uscita, come aveva temuto. È caduta al suolo. E il pavimento — al contrario del burrone — è un luogo da cui si può ripartire.

Un giorno prende un foglio. Da un lato scrive i nomi delle persone che riteneva responsabili della sua caduta; dall’altro le dinamiche ricorrenti che lei stessa continuava a ripetere. Poi butta via i nomi e tiene il resto. È il gesto che segna la sua vera risalita.

La vita, però, non aveva finito di metterla alla prova. Il primo progetto che concepisce dopo quel periodo — giochi per pazienti Alzheimer — le viene sottratto da altre persone. È un altro colpo. Un altro fallimento. Ma questa volta Francesca lo riconosce per quello che è: un segnale. Non può più appoggiarsi sugli altri per proteggersi. Non può più aspettare condizioni perfette. Non può più nascondere la propria creatività dietro un team numeroso. Il numero perfetto per costituire una società, scopre che deve essere dispari, non è nove. Non è tre. È uno.

Nasce così il primo seme della Scuola di Fallimento. Non come format, non come modello, non come idea da lanciare, ma come gesto identitario: il viaggio dell’errante, un percorso per rimettersi in cammino a partire da sé stessa, dal suo modo di pensare, dalla sua sensibilità.

Il 2017 è l’anno più duro. A gennaio sua madre viene colpita da un ictus gravissimo. A dicembre muore suo padre. In mezzo, a giugno, Francesca lancia la Scuola di Fallimento. Non perché fosse pronta. Non perché fosse forte. Ma perché ormai aveva compreso una verità che la perfezione le aveva sempre impedito di vedere: non esiste il momento giusto. Esiste il momento in cui decidi.

Una fondazione le chiede se sarebbe in grado di tenere il corso. Non lo era. Ma dice sì. E quel sì le cambia la vita.

In meno di un anno arrivano giornalisti, interviste, curiosità. Non perché il fallimento sia diventato improvvisamente affascinante, ma perché Francesca racconta qualcosa che tutti vivono e pochi dichiarano: la vulnerabilità come dimensione umana, il dolore come occasione di conoscenza, la possibilità di trasformare un errore senza glorificarlo.

Nella Scuola di Fallimento si impara a leggere i propri processi decisionali, a comprendere perché si sbaglia, a dare un nome all’errore e a trasformarlo. A sdrammatizzarlo. A riderne — non per sminuirlo, ma per liberarlo dal peso.
E soprattutto si impara una cosa semplice e rivoluzionaria: non si cade mai da soli, e non ci si rialza mai da soli.

C’è un altro punto che Francesca sottolinea spesso: nelle donne, la paura più grande non è solo quella del fallimento, ma quella del successo. Perché il successo, a volte, mette le persone dove il mondo non sa ancora come guardarle. Alla Scuola di Fallimento si lavora anche su questo: riconoscere il proprio spazio, la propria voce, la propria possibilità.
Alla fine, forse tutto si riassume in una frase che Francesca pronuncia con una lucidità serena:
«Quando perdi un ruolo, chi sei? Io resto Francesca. Indipendentemente da tutto».

E quando le chiedi cosa direbbe oggi a quella ragazza che si ritrovò un giorno con la vita spezzata tra le mani, risponde senza esitazione: «Avere fede. E coraggio. Il coraggio di mettersi in gioco, il coraggio di fidarsi delle proprie capacità, e di credere che qualcuno, in un modo o nell’altro, ti aiuterà a rialzarti dal pavimento».

Forse è proprio questa l’essenza della sua storia: non la caduta, non il dolore, non l’errore. Ma la scelta — sempre possibile — di rialzarsi con un nuovo sguardo.

#ToBeContinued
Andrea Bettini