
C’è chi eredita un’azienda e c’è chi la sceglie. Antonio Capaldo ha fatto entrambe le cose, ma a modo suo. Figlio di una terra scossa, l’Irpinia, e di una famiglia che ha trasformato una tragedia – il terremoto del 1980 – in una possibilità di rinascita, oggi è alla guida di Feudi di San Gregorio, una delle cantine più rappresentative del Sud Italia. Ma non è questo a fare la differenza. A renderla unica è la visione di chi, pur provenendo dalla finanza e dalla consulenza strategica, ha saputo reinnamorarsi della lentezza, del rischio, della terra.
Il suo è un cammino fatto di slittamenti, rotture, rimesse in discussione. «Io non sono nato per fare questo mestiere. Non sono cresciuto tra le vigne. Il mio background è un altro: economia, finanza, Parigi, McKinsey. Una vita di numeri, di clienti, di power point. Poi, a un certo punto, il salto. Dal mio “lato oscuro” a un mondo di luce. Ma il passaggio non è stato indolore. Ho portato con me tanti strumenti, ma non quelli che servono davvero a fare l’imprenditore».
Eppure oggi, grazie anche a quel bagaglio ibrido e inquieto, Capaldo guida una delle aziende più dinamiche e visionarie della viticoltura italiana. Fondata nel 1986, Feudi di San Gregorio è molto più di una cantina: è un laboratorio culturale e produttivo, una forma di pensiero, un esercizio di bellezza applicata. Lavora su oltre 300 ettari suddivisi in 800 particelle, ognuna diversa per esposizione, altitudine, pendenza. E proprio nella valorizzazione di questa biodiversità risiede il cuore del progetto.
«Noi non siamo né i grandi storici né i puri imbottigliatori. Non lavoriamo per aumentare la quota patrimoniale della famiglia ogni dieci anni. Non abbiamo una legacy da replicare, ma una sfida da portare a termine. E la sfida non è accumulare, ma trasformare: territori, relazioni, modelli di impresa».
Una sfida che ha trovato forma concreta quando Feudi è diventata Società Benefit, certificata B Corp, parte del Global Compact delle Nazioni Unite. Parole che suonano spesso come slogan, ma che qui corrispondono a scelte quotidiane: energia da fonti rinnovabili, packaging sostenibili, investimenti nella ricerca agronomica e nel sociale. Non si tratta di moralismo, ma di visione. «Oggi non puoi più permetterti un’impresa che viva di esternalità negative. Se estrai valore senza restituire, sei destinato a fallire».
Accanto alla casa madre, è nato il progetto Tenute Capaldo: un arcipelago di cantine – da Campo alle Comete a Bolgheri fino a Sirch nei Colli Orientali del Friuli – che condividono la stessa etica del radicamento e della qualità. Una rete che è anche una dichiarazione di poetica: ogni territorio ha la sua voce, ogni vino la sua verticalità, ogni scelta il suo perché.
Ma ciò che distingue davvero Antonio è il suo sguardo laterale. È un uomo che coltiva il dubbio, accetta l’errore, rifugge la retorica dell’imprenditore-eroe. «Non so gestire bene il conflitto, non mi considero un grande imprenditore. Ma proprio per questo Feudi è un’azienda viva, mai doma. Gli errori fanno parte del nostro percorso. E anche dirlo, oggi, è un atto politico».
Non a caso, uno dei progetti più ambiziosi si chiama FeudiStudi: microvinificazioni sperimentali da parcelle selezionate, in tiratura limitata, nate per raccontare l’Irpinia con radicalità e precisione. O il progetto Patriarchi, che recupera ceppi centenari prefillossera, codificati e reimpiantati per salvaguardare un patrimonio genetico altrimenti perduto. Qui il vino non è solo prodotto: è memoria, cultura, gesto artigianale che diventa atto di futuro.
Antonio fa parte di una nuova generazione di vignaioli, tra i 35 e i 50 anni, che si muovono tra l’innovazione e il rispetto delle radici. Una generazione che, pur non avendo secoli di storia alle spalle, sente la responsabilità di costruire qualcosa che resti. «Ci confrontiamo, ci ascoltiamo, ci contaminiano. Non sempre siamo d’accordo, ma è questo il bello. La tradizione non è una forma immobile. È una scelta che si rinnova ogni giorno».
E poi ci sono i figli. «Mi piacerebbe che, leggendo questo racconto, riconoscessero la stessa persona che va a prenderli a scuola. Non quella che prende un premio o finisce su un giornale. Ma il papà che sbaglia, che si impegna, che ha scelto un lavoro difficile per provare a fare la differenza. Vorrei che imparassero a viaggiare leggeri. Perché se ti abitui a un solo tipo di benessere, poi soffri. Invece, se riesci a trovare soddisfazione in ciò che fai, senza bisogno di maschere o conferme, sei libero».
Nel mondo del vino, dove spesso tradizione e rendita si saldano in un eterno presente, Antonio Capaldo rappresenta un’anomalia feconda. Un vignaiolo atipico, un idealista pragmatico, un eretico gentile. Forse è questo il segreto di Feudi: non rincorrere un’identità, ma continuare a cercarla. Come si fa con le cose vive.
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